sabato 31 dicembre 2011

la (prima) bistecca artificiale



E' Arrivata...



La Gallina

………….Percorremmo una fila di corridoi e prendemmo l’ascensore in discesa. Io chiusi gli occhi. Venire giù da quelle altezze era impressionante. Passammo dal quarantesimo piano al piano-terra, e poi giù ancora.

— Salta

— mi disse a un certo punto Gus.

— Siamo arrivati.

Eravamo dieci livelli sotto terra.

Saltai. Il Reparto Meno Dieci trasudava acqua dalle pareti. Il soffitto era sorretto da immensi piloni. Intricate condutture attraversavano il corridoio nel quale ci addentrammo.

— Lì dentro scorre la soluzione nutriente

— mi spiegò Herrera. Domandai di che cos’era fatto il soffitto.

— Cemento e piombo

— mi rispose.

— Serve a schermare i raggi cosmici.

— Poi aprì una porta.

— Ecco dove nascono i polli Chicken

— annunciò con orgoglio. Io guardai e mi venne la nausea. Eravamo in una immensa cupola quasi tutta riempita dal “pollo” di color grigio- bruno. Decine di condutture passavano in mezzo alla massa di “carne” pulsante. Quel “pollo” era vivo!

— Io passo la giornata qui

— riprese Herrera.

— Sorveglio continuamente la mia gallina, e quando una sua parte si gonfia rapidamente e si vede a occhio che è sana e tenera, taglio via il pezzo.

I miei aiutanti si impadroniscono della porzione, la tagliano in pezzi più piccoli, e li sistemano sui nastri convettori.

— Mi indicò u

na serie di aperture nella parete, dove sparivano dei nastri mobili.

— Di notte continua la crescita? — mi informai. — No. Di notte l’afflusso della soluzione nutriente viene regolato al minimo. Ogni notte la mia gallina quasi muore, e ogni mattino rinasce a nuova vita, come Lazaro.

— Col suo coltello diede un paio di colpetti affettuosi alla massa palpitante.

— Le vuoi bene!

— esclamai, sbalordito.

— Certo

— disse.

— La m

ia gallina mi aiuta.

— Si guardò attorno, compì tutto il giro della cupola sbirciando dentro ogni convettore, poi prese un bastone da uno dei tunnel e andò a metterlo contro la porta della cupola, inserendolo fra una scanalatura del pavimento e una sbarra che attraversava il battente. Così la porta era sprangata.

— Ti farò vedere un mio trucco

— mi disse, sorridendo. Con un gesto da prestigiatore tolse di tasca una specie di fischietto che funzionava con una piccola pompa collegata a un minuscolo serbatoio d’aria.

— Lo chiamano il fischietto di Galton, ma chi sia questo Galton non lo so 2 . Guarda, e ascolta. Azionò la pompa puntando il fischietto contro il “pollo”. Non sentii alcun suono, ma rimasi di stucco vedendo formarsi una depressione semisferica nel protoplasma, in corrispond

enza di una conduttura. Non ti spaventare

— disse Herrera. P

Premette più forte sulla pompa, e contemporaneamente mi passò una torcia elettrica che io automaticamente accesi. Herrera continuò a dirigere il fischio silenzioso contro il “pollo”, e la massa reagì aprendo in sé una cavità sempre più grande, finché si formò una specie di corridoio a volta il cui pavimento coincideva con quello del locale. Herrera penetrò nel passaggio dicendo:

— Seguimi. …………………… ( da I Mercanti dello Spazio)

1962, Phol inventa per primo(?) il petto di pollo artificiale , ambientato in un futuro che forse non va oltre il 2050; un modo per risolvere un problema di alimentazione proteica a basso costo .

All’estremo opposto la soluzione proposta in “ 2022 , i sopravvissuti “. In un mondo che non ha più risorse le proteine vengono distribuite dalla multinazionale Soylent, e sono contenute nell’omonima sostanza (soylent appunto) razionata e distribuita giornalmente dalle autorità .Alla fine del film si scoprirà la sua macabra fonte

Probabilmente anche phol allora era a conoscen

za della ipotetica possibilità di produrre carne in vitro.

Il 17 gennaio del 1912 il biologo premio Nobel Alexis Carrel mise il tessuto prelevato dal cuore dell’embrione di un pollo in una soluzione di nutrienti, e lo tenne in vita nel suo laboratorio, al Rockefeller institute, per più di vent’anni. L'esperimento suscitò grande interesse, e la speranza che la scienza potesse assicurare l'immortalità agli uomini.

«Da qui a cinquant'anni dovremmo abbandonare l'assurda idea di allevare un pollo intero per mangiarne il petto o le ali; cresceremo invece queste parti separatamente, in appositi mezzi di coltura » Così , scriveva Winston Churchill nel 1932 nel libro: “ Thoughts and Adventure “

Oggi , almeno teoricamente, la nostra ‘gallina spaziale è disponibile , l’idea originale , anzi l’ossessione ( come dice lui ) è di Willem van Eelen.

Van Eelen venne catturato dai giapponesi che lo fecero lavorare in un campo di prigionia per anni : in malesia : “ Lavoravamo dalla mattina alla sera per costruire piste d’atterraggio. Ci picchiavano come cani. Non c’era quasi niente da mangiare. Con noi i giapponesi erano duri, ma erano ancora più crudeli con gli animali: li prendevano a calci, gli sparavano. Se uno dei cani randagi attraversava il filo spinato, i prigionieri gli saltavano addosso, lo facevano a pezzi e lo mangiavano crudo “

Dopo la guerra studiò psicologia all’università di Amsterdam ma, tormentato dal ricordo della fame e degli abusi sugli animali, cominciò anche a frequentare conferenze scientifiche. Durante un incontro sulle tecniche di conservazione della carne ebbe un’idea: “Mi chiesi: perché non possiamo far crescere la carne fuori dal corpo? Farla in laboratorio, come tante altre cose? A me piace la carne, non sono vegetariano. Ma è difficile giustificare il modo in cui trattiamo gli animali. Produrre carne senza infliggere dolore mi sembrava la soluzione più giusta”.

Van Eelen non ha mai smesso di inseguire il suo sogno, ma ci sono voluti decenni perché la scienza riuscisse a dar forma alla sua fantasia.

Tutto è cominciato nel 1981, quando nei topi sono state scoperte delle cellule staminali in grado di dividersi quasi all’infinito e trasformarsi in tessuti diversi. Van Eelen intuì subito le potenzialità della scoperta, anche se in quegli anni non c’era ancora grande interesse per la trasformazione delle cellule muscolari in carne Nel 1999, ottenne il brevetto statunitense e quello internazionale per la “produzione di carne attraverso coltura cellulare”. Per la prima volta autorevoli studiosi cominciarono a prenderlo sul serio

Van Eelen e H.P. Haagsman, scienziato dell'Università di Utrecht, riuscirono ad ottenere dei fondi dal governo olandese per finanziare un consorzio che intendeva dimostrare che le cellule staminali potevano essere prelevate da animali nelle fattorie, fatte crescere in coltura e indotte a trasformarsi in cellule muscolari. Gli scienziati riuscirono a far crescere piccole strisce sottili di tessuto muscolare in laboratorio - qualcosa che somigliava a pezzi di capesante e aveva la consistenza gommosa del calamaro ­ma rimanevano numerosi ostacoli per la produzione a larga scala. «Alla fine sapevamo molto più di prima. Ma ancora non riusciva­mo a ottenere da una capsula di Petri qualcosa che sapesse di bistecca», racconta Peter Verstrate, che nel consorzio rappresentava la Meester Stegeman e attualmente lavora come consulente.

Van Eelen però non era il solo a immaginare una rivoluzione simile. Nel 2005, un articolo del New York Tìmes » concludeva che tra qualche anno potremmo avere carne prodotta in laboratorio, pronta per essere venduta come salsicce e involtini». Un paio di mesi prima dell'uscita dell'articolo, alcuni ricercatori avevano pubblicato su Tissue Engineering» il primo studio sulle prospettive della produzione industriale della carne coltivata. Tra gli autori c'era la­on Matheny, fondatore di New Harvest, un'organizzazione a favore della carne prodotta in laboratorio.

La carne che cresce in bioreattori, al posto di quella da allevamenti, potrebbe aiutare a ridurre l'impatto ambientale. Hanna Tuomisto, PhD all'Università di Oxford, è coautrice di uno studio pubblicato lo scorso anno sul potenziale impatto ambientale della carne coltivata.

Lo studio ha mostrato che se gli scienziati coltivassero cellule muscolari in una coltura di idrolizzato di cianobatteri, questa procedura farebbe risparmiare tra il 35 e il 60 per cento dell'energia, abbatterebbe delI'80-95 per cento le emissioni di gas serra e userebbe il 98 per cento in meno di terreno rispetto ai siste­mi convenzionali usati in Europa per la produzione di carne.

Oggi il 30 per cento della superficie terrestre libera dai ghiacci è sfruttato per l'allevamento diretto o per coltivazioni a uso animale. Se la coltura di carne in laboratorio diventasse praticabile e si diffondesse, gran parte del terreno agricolo si potrebbe usare per altri scopi, compresa la crescita di nuove foreste, che assorbirebbero carbonio dall'atmosfera.

La carne non dovrebbe più viaggiare per il mondo, perché i centri di produzione sarebbero collocati vicino ai consumatori. Alcuni sostenitori di questa idea prevedono la nascita di piccoli laboratori urbani di carne che vendono i loro prodotti in mercati locali.

«In futuro [questa] sarà l'unica scelta possibile" afferma Mark Post, direttore del Dipartimento di fi­siologia dell'Università di Maastrìcht, «Non riesco a capire come, nei prossimi decenni, si possa solo immaginare di continuare con le vecchie tecniche di allevamento per la produzione di carne».


In teoria, una fabbrica di carne in vitro funzionerebbe più o meno così: si isolerebbero cellule staminali adulte o embrionali da maiali, mucche, polli e altri animali. Le cellule staminali si dividerebbero ripetutamente per mesi e mesi. In seguito si farebbero trasformare le cellule in muscolo

Alla fine, le cellule muscolari dovrebbero «mettere su massa», un po' Poi si farebbero crescere queste cellule in bioreattori, usando una coltura di origine vegetale. Quando le cellule cominciano a riprodursi formando il tessuto muscolare, verrebbero montate su una sorta di impalcatura biodegradabile. In questo modo il tessuto può essere allungato e modellato a forma di cibo facendo come gli animali che sviluppano la loro muscolatura con il movimento e – almeno in teoria – venduto e consumato come le carni trattate industrialmente da cui si ricavano hamburger e salsicce

In Europa e negli Stati Uni-ti è nata una nuova disciplina scientifica, alimentata da un’insolita collaborazione tra biologi cellulari, ingegneri tissutali, attivisti per i diritti degli animali e ambientalisti. Dopo una partenza incerta, il movimento si è consolidato quando, nel 2001, la Nasa ha finanziato un esperimento guidato da Morris Benjaminson sulla produzione di carne per i voli spaziali. Benjaminson, un bioingegnere del Touro college di New York, ha ta­gliato dei filetti di pesce rosso e li ha immersi in una soluzione nutriente ricavata dal sangue di feti di bovino.

Nel giro di una settimana, i pezzi di pesce sono cresciuti quasi del 15 per cento. Il risultato non era carne, certo, ma dimostrava che produrre carne fuori dal corpo era possibile.

Poi, nel 2004, sollecitato dalle continue pressioni di Van Eelen, il governo olandese ha assegnato due milioni di euro a un consorzio di uni­versità e centri di ricerca di Amsterdam, Utrecht ed Eindhoven. Il fondo era mode­sto, ma ha contribuito a trasformare i Paesi Bassi in una specie di Silicon valley della carne in provetta.Van Eelen non è stato l’unico a non farsi scoraggiare dall’indifferenza.

Anche Vladi­mir Mironov, professore associato presso il dipartimento di biologia cellulare e anato­mia della Medical university of South Carolina, sta cercando una tecnica per produrre carne in provetta. Bioingegnere dei tessuti, Mironov è cresciuto in Russia e ha studiato al Max Planck institute con Werner Risau, pioniere della biologia vascolare. Nei primi anni ottanta si è trasferito negli Stati Uniti, dove ha cominciato a interessarsi alla possibilità di produrre carne in laboratorio. “Qualche anno fa ho cercato di ottenere un finanziamento”, mi racconta nel suo labo­ratorio di Charleston. “Ma non ci sono riu­scito. Allora ho cercato investitori privati. Niente. Ho contattato grosse aziende. An­cora niente. Ma lentamente, un po’ alla vol­ta, qualcosa ha cominciato a muoversi”.Nelle università di tutto il mondo sono nate équipe di ricerca, alcune interessate a migliorare le condizioni di vita degli animali, altre alla medicina rigenerativa, altre ancora alla carne artificiale come possibile soluzione alla crisi ambientale. Tutte, però, hanno un obiettivo comune: produrre carne senza usare animali. E produrne abbastanza per poterla mettere sul mercato. di ricerca, alcune interessate a migliorare le condizioni di vita degli anima­li, altre alla medicina rigenerativa, altre an­ora alla carne artificiale come possibile soluzione alla crisi ambientale. Tutte, però, hanno un obiettivo comune: produrre carne senza usare animali. E produrne abbastan­za per poterla mettere sul mercato. “È un’idea elementare”,dice Ingrid Newkirk, cofondatrice e presidente della Peta (People for the ethical treatment of animals). Tre anni fa quest’associazione, dotata di uno straordinario talento per le pubbliche relazioni, ha messo in palio un milione di dollari da destinare al primo gruppo di ricerca in grado di realizzare “un prodotto a base di carne di pollo prodotta in vitro con il sapore e la consistenza della vera carne di pollo”.

Di recente la Peta ha fornito i fondi necessari per consentire al bioingegnere Nicholas Genovese di lavorare nel laboratorio di Mironov: una specie di borsa di studio a spese dell’associazione. “Se la gente non è disposta a smettere di mangiare enormi quantità di animali”, ha spiegato Newkirk, “allora bisogna potergli offrire carne ottenuta senza gli orrori del mattatoio, del trasporto sui carri bestiame, delle mutilazioni e delle atrocità subite dagli animali negli allevamenti”.

Con il passare degli anni il nostro modo di consumare la carne è diventato sempre più pericoloso, sia per gli individui sia per il pianeta. Secondo la Fao, l’industria globale dell’allevamento è responsabile di quasi il venti per cento delle emissioni di gas serra del pianeta, cioè più di tutte le auto, i treni, le navi e gli aerei messi insieme. Il bestiame consuma quasi il 10 per cento delle risorse mondiali di acqua dolce, e l’80 per cento di tutto il terreno coltivabile è destinato alla produzione di carne.

Purtroppo , oggi , sarà difficile, che qualcuno di noi possa mangiare un hamburger di carne sintetica , almeno sino a qualche mese fa il costo di un Hamburger o di una salsiccia sarebbe stato di circa 300.000 dollari .

Mark Post punta a creare una salsiccia in vitto solo per dimostrare che è possibile. Ha calcolato che costerà 300.000 euro e che terrà impegnati due studenti di dottorato e tre incubatori per sei mesi. «Prenderemo due o tre biopsie da un maiale - spiega - diciamo 10.000 cellule stamìnali. Dopo 20 divisioni dovremmo avere dieci miliardi di cellule».

Gli studenti useranno 3000 capsule di Petri per produrre tanti piccoli frammenti di tessuto muscolare suino, che poi saranno compattati in forma di salsiccia, con spezie e altri ingredienti non animali, per ottenere la giusta consistenza e sapore. Alla fine gli scienziati potranno mostrare la salsiccia vicino al maiale vivo da cui è cresciuta.

«È soprattutto una trovata per generare nuovi fondi, dice Post «Stiamo cercando di dimostrare che da questa ricerca siamo in gra­do di ottenere un prodotto commerciale, Ma avrà il sapore di una salsiccia? «Penso proprio di sì», afferma Roelen, «Buona parte del sapore tipico dei bocconcini di pollo o delle salsicce è artificiale. Per fargli avere quel sapore si aggiungono sale e altri ingredienti.

giovedì 22 dicembre 2011

La (prima ) scatoletta e (il primo) apriscatole

Conservare per i tempi di magra, una esigenza presente da sempre , un attività risolta usando tecniche che consentivano agli alimenti di durare nel tempo anche variando le loro caratteristiche organolettiche , il che aumentava o diminuiva la qualità degli alimenti

Il commercio del pesce salato, salato e affumicato si faceva già nell'antico Egitto e presso i Fenici, ed era noto ai Greci e ai Romani.

La conservazione degli alimenti, cioè il complesso di tecniche che permettono di ottenere l'inibizione delle cause di alterazione, precede l'individuazione delle cause stesse (microrganismi, enzimi e agenti chimici e fisici)

Come metodo di conservazione si sviluppò soprattutto fra i popoli marinari del Nord-Europa (all'olandese William Beukels si fa risalire la scoperta dell'affumicamento delle aringhe nella prima metà del XV secolo, ma si trovano tracce di tale tecnica in documenti inglesi e francesi antecedenti di almeno duecento anni). L'uso di prodotti salati ed essiccati risale al primo millennio d.C. (esistono bassorilievi romani che riportano sagome di prosciutti), il prosciutto di Parma trova tracce di progenitori nel XIII secolo e nel 1500 Bologna era rinomata per i salumi e gli insaccati, mentre la scoperta dello zucchero determina nel XV secolo la nascita dei primi canditi in Liguria. L'impiego di un effetto protettivo di sostanze chimiche naturali (resine e balsami) era noto ai Romani (Vitruvio ricorda che dal cedro si ottiene un olio capace di conservare qualsiasi sostanza; il cuoco imperiale Gabrio Apicio nel suo “De re coquinaria” afferma di sapere conservare la carne con il miele, l'aceto, il sale e la mostarda e Palladio, nel IV secolo, raccomandava di conservare le olive facendone strati compatti colmati con miele, aceto e sale).

Ma qual è l’altro motore che , da sempre favorisce lo sviluppo delle invenzioni e delle tecnologie ? Da sempre la guerra , e nel nostro caso la parte dedicata alla logistica : assicurare ai soldati una quantità sufficiente di cibo e munizioni, assicurare il cibo anche quando questo non si riesce a trovare sul territorio conquistato .

E infatti nel 1804 il direttorio francese mette in palio un premio di 12.000 franchi per chi avesse presentato il miglior progetto per la fornitura di alimenti conservati all'esercito

Risponde, come molti sanno, Appert pasticciere in rue de Quincampoix a Parigi, che dopo numerosi tentativi a partire dal 1796 realizza in un piccolo atélier a Ivry-sur-Seine le prime conserve in vasi di vetro : due le intuizioni fondamentali, il riscaldamento in acqua bollente e la chiusura ermetica del vaso in fase di bollitura. Le stesse che aveva alcuni anni prima individuato l'abate Lazzaro Spallanzani in Italia, senza peraltro darne particolare diffusione, se non in alcuni scritti dei suoi “Opuscoli” e le stesse indicate dallo svedese Scheele per la conservazione dell'aceto (1782).

Ne fa oggetto di una pubblicazione fondamentale, il Livre de tous les ménages, ou l'art de conserver pleusieurs années toutes les substances animales et végétales del 1804, che apre con un assunto sicuramente ottimistico: “Con questo processo, Vi sarà possibile trasferire nella vostra cantina tutto quanto il vostro orto produce in primavera, in estate e in autunno e dopo parecchi anni Voi troverete i vostri alimenti vegetali ancora buoni e sani come quando li avete raccolti e con una certa preveggenza potrete premunirvi per eventuali periodi di indigenza e carestia”

Ma il vetro è scomodo , e si rompe facilmente , e pesa , occorreva un piccolo passo in più , come sappiamo noi tutti quando scegliamo di conservare in casa i pomodori o la frutta prodotti secondo lo stesso procedimento di più di 200 anni fa : nel vetro ; me se andiamo in campeggio ci portiamo dietro una lattina di pomodoro , o di frutta sciroppata , che si ammacca , ma non si rompe e pesa meno del vetro .

Negli stessi anni (1810) proprio in Inghilterra Peter Durand presenta il brevetto per un metodo di conservazione degli alimenti mediante riscaldamento entro recipienti di latta e viene riconosciuto come l'inventore delle scatole in banda stagnata, impropriamente in quanto in precedenza Dutch aveva proposto contenitori di latta per pesce conservato sotto sale; Durand non sfrutta il brevetto e lo cede a Bryan Donkin e a John Hall che lo perfezionano applicando la saldatura del coperchio a fine cottura. E così, mentre Appert viene osannato in Francia, la sua invenzione trova un interesse particolare al di là della Manica, in quell'Impero britannico, molto più pronto a sfruttare la novità per alimentare le proprie truppe marine in navigazione verso le colonie, di quanto lo sia lo stesso Napoleone nei confronti delle proprie truppe di terra impegnate nella campagna di Russia. L'invenzione di Donkin, sviluppata commercialmente dalla “John Gamble” di Bermondsey, rende possibile nel 1824 la fornitura di diecimila scatolette di vitello arrosto a certo capitano Parry che stava iniziando uno sfortunato e lungo viaggio per trovare un passaggio a mare attraverso il Polo Nord per le Indie. Una di queste scatolette sarebbe stata ritrovata 114 anni dopo ancora intatta e il contenuto giudicato in perfetto stato di conservazione.

L'invenzione europea trova rapida applicazione oltre Atlantico e già nel 1817 viene aperto il primo stabilimento in Nord-America a Boston e due anni dopo un secondo a New York che inizia la produzione di salmone, granchi e ostriche in scatola. Come si può vedere dai prodotti inscatolati, la prima attenzione venne dedicata a "prodotti d'élite" e solo nel 1853 si ebbe un primo notevole impulso allo sviluppo dell'industria conserviera quando Gail Borden, nel Texas, mise a punto un sistema di conservazione di latte condensato: la richiesta di latte condensato in scatola fu immediata e sorsero molti stabilimenti di produzione. La vera svolta produttiva derivò però dalla guerra civile nordamericana (1861): la necessità di fornire alimenti alle truppe fu talmente elevata che l'industria ebbe una notevole crescita che non si arrestò nemmeno a guerra finita.

Ma anche il montone australiano prodotto trova una destinazione come alimento conservato in scatola e costituisce un'occasione di grande interesse alla Grande Esposizione di Londra del 1851,. È ormai impossibile seguire cronologicamente lo sviluppo dell'industria conserviera nella seconda metà del XIX secolo, ma alcuni nomi sono sicuramente da rammentare: Botany Bay (Nuovo Galles) nel 1875, fabbriche di conserve di carne dei Frigorificos argentini e uruguayani nel 1870, Kidwell a San Francisco e soprattutto James Dole alle Hawai per le conserve di ananas. È in quel periodo che viene forgiata la parola canister, presto semplificata in can, con la quale si individuano le scatolette dei canned foods prodotti dalla canning industry.

In Italia i nomi di spicco ai quali fa riferimento l'industria conserviera della seconda metà dell'Ottocento sono sicuramente Francesco Cirio e Pietro Sada. Il primo nel 1858 apre a Torino la prima fabbrica di piselli in scatola, mentre il secondo nel 1881 impianta a Crescenzago la prima fabbrica di conserve di carne. Per Cirio (modesto figlio del popolo, ardimentoso suscitatore di energie nei commerci e nelle industrie agricole nazionali, come lo ha descritto, con la prosopopea autarchica del periodo, A. Marescalchi ) si è trattato di un lungo peregrinare al Nord e al Sud d'Italia quasi per diffondere la nuova frontiera della scatoletta e quando nel 1900 egli muore, sul territorio nazionale le fabbriche di conserve sono ormai alcune centinaia.

L’invenzione della scatoletta è così importante che ne 2010 è stato celebrato il bicentenario dell’invenzione della scatoletta E la scatoletta è così importante che è diventata anche un oggetto du culto com ' era anche originariamente

Da qui si può ben intendere come la grande famiglia delle scatole di latta, alle quali oggi è dedicato un fiorente collezionismo, sia in realtà divisa in due ampie categorie. Quelle "povere", sigillate, che per svolgere la loro funzione devono essere aperte e distrutte, e quelle "aristocratiche" per le quali il contenuto è quasi un pretesto e che, anzi, appena vuotate acquistano una più orgogliosa vita propria. E' facilmente intuibile che il collezionismo riguarda quest'ultimo tipo di scatole, che hanno espresso il loro massimo splendore tra la fine d ell'Ottocento e la metà del Novecento, e che spesso furono addirittura firmate dalle griffe della pubblicità dell'epoca, da Dudovich a Cappiello

E fin qui va tutto bene .Ma se le scatolette sono state inventate nel 1810 l’apriscatole , quando è stato inventato ? Sorpresa , almeno 30 anni dopo .E dobbiamo tenere conto che trattandosi di una banda di metallo stagnata , fabbricata a mano lo sforzo per aprirla doveva essere non indifferente.

Nel 1858, Ezra Warner di Waterbury, Connecticut, brevettò il primo apriscatole. L'esercito americano lo usò durante la guerra Civile. Nel 1866,

Osterhoudt depositò il primo brevetto per lattine con apertura a chiavetta. Il grande vantaggio di questo tipo di lattina consisteva nel fatto che, diversamente dall’apertura delle lattine cilindriche brevettate da Peter Durand nel 1810, la chiavetta permetteva di aprire la scatoletta molto accuratamente e senza usare una lama. Per l’apertura della scatoletta si usava appunto una “chiavetta” di metallo, con la quale si sollevava, arrotolandolo all’indietro, il coperchio di metallo. Questo semplice ed efficace sistema condusse a molti brevetti migliorativi del design iniziale.

Dal brevetto depositato nel 1924 da G.A. Leighton, che presentava un punto meno resistente a forma di “X” dove andava inserita la chiavetta e una linea a forma di freccia e meno resistente dove il metallo sarebbe stato sollevato, si capisce perfettamente il funzionamento della “chiavetta”, la quale, dotata a una delle estremità di un gancetto, era inserita nel punto di minor resistenza. Girandola e facendola ruota re indietro seguendo la lunghezza della scatoletta, il coperchio di metallo rimaneva alla fine dell’operazione arrotolato a un’estr

emità mostrandone il contenuto.

L'inventore della forma più familiare apriscatole fu William Lyman. William Lyman brevettò un apriscatole molto facile da usare nel 1870. Il tipo con la ruota che rotola e taglia lungo il bordo di una lattina. La Stella Can Company di San Francisco William Lyman ha migliorato apriscatole nel 1925 con l'aggiunta di un bordo seghettato alla ruota. Una versione elettrica dello stesso tipo di apriscatole è stata ha venduta per prima nel mese di dicembre del 1931.

E nel periodo che va dall’invenzione della scatoletta a quello che va all’invenzione dell’aprisctole possiamo solo immaginare come e con cosa venivano aperte le scatolette.


giovedì 15 dicembre 2011

la prima ricetta

Qual è «la più antica del mondo?
N
essuno ci può rispondere.

Della nostra preistoria ci restano vestigia materiali: residui alimentari, utensili, forni, ma nulla che ci precisi in che modo fossero utilizzati.

Solo i documenti scritti possono darci un'idea di queste «istruzioni per l'uso»: ricette, che costituiscono tutta la cucina.

E siccome la comparsa della scrittura è successiva al III millennio, è soltanto da quest’epoca che possiamo conoscere i più antichi sistemi di gusti e di metodi tradizionali efficaci per trasformare i cibi grezzi in pietanze adatte a quei gusti e da consumarsi nell'immediato.

Fino a quel momento, la più antica raccolta di ricette di cucina era la celebre Arte culinaria (De re coquinaria ) , compilata nel IV secolo d. C., sulla base dell'opera di Apicio, «la più antica cucina» conosciuta era dunque quella dei romani.

In precedenza alcuni greci, in particolare della Magna Grecia, avevano composto, anche loro, delle raccolte gastronomiche Ma tutte queste opere sono andate perdute, a parte qualche breve citazione

Un aiuto ci viene dalla Mesopotamia . È la sede di una grande civiltà, originale ed arcaica, che si è costituita non più tardi del IV millennio; che verso il 3000 a.C., per prima, ha inventato la scrittura.

Di questa non abbiamo quasi per niente ricette, ma dalle tavolette di argilla siamo in grado di stilare un inventario impressionante di derrate che costituivano il rancio degli antichi Mesopotami: cereali, verdure varie, cocco, mele, pere, fichi, melograni, uva , bulbi e radici, -tartufi. e funghi, erbe da condimento, carni grasse e soprattutto bestiame minuto, maiali e pollame, con l'esclusione dei gallinacei, arrivati più tardi, di cui si consumavano anche le uova, e la cacciagione, pesci di mare e di acqua dolce, cheloni, crostacei e frutti di mare e, tra gli insetti, almeno le cavallette; latte, «burro. ed altri grassi animali (strutto, ecc.) e veg

etali {sesamo ed ulivo): manne di alberi vari, poi miele d'api per addolcire i cibi e prodotti minerali (sale, cenere?) per dar maggior consistenza al sapore. Tutte queste derrate locali erano così varie che, per quanto ne sappiamo, i Mesopotami non hanno mai, per cosi dire, importato nulla dall'estero, nonostante l'intensità e la vastità geografica del loro commercio prima ancora del III

millennio.


Tuttavia, se si accontentavano dei loro prodotti locali, si sono ingegnati a trattarli, trasformarli e prepararli in svariate maniere. All'inizio sapevano conservarli facendo seccare non solo i cereali e i legumi (fave e lenticchie) ma diversi ortaggi e frutta (in particolare il dattero, l'uva ed il fico), e soprattutto la car

ne ed il pesce, che probabilmente avevano imparato ad affumicare (?) e che, abitualmente, conservavano sotto sale («salata» di pesce, di manzo, di gazzella...). Conoscevano anche l'arte di «conservare» determinati frutti, nel miele, e del pesce, più spesso nell'olio. Avevano messo a punto una salamoia, utilizzata sia come pietanza che come condimento, a base di pesce, di crostacei o di cavallette, che chiamavano shiqqa, simile alla pirsalat nizzarda. Utilizzavano la fermentazione lattica per preparare -.latti acidi» e formaggi freschi. Si era anche sviluppata una tecnica per il trattamento dei cereali: si trattavano con il malto. li si tritava nella macina («tramoggia del mulino.) per farne seme. la e farina, che si poteva ottenere più o m

eno fine con la setacciatura.

Dal malto si ricavava la birra, bevanda nazionale in questi paesi, dove si conosceva anche il vino proveniente da Nord e da Nord - Ovest.

Per quanto riguarda il fuoco se ne erano mirabilmente serviti. Esponevano i loro cibi alla fiamma o alla brace per cuocerli o arrostirli, e utilizzavano anche alcuni strumenti per modulare il calore di cottura, come la cenere bollente, o tizzoni poggiati sulla brace. Si servivano anche di cilindri verticali in argilla, con le pareti interne ben riscaldate sulle quali si applicavano, per cuocerli, degli strati di pasta non lievitata, come si fa ancora oggi in Oriente, dove anche il nome di questo forno (tann&r) deriva da quello utilizzato dagli antichi mesopotami (tinibir). Essi avevano inventato, all'inizio del III millennio, dei «forni a cupola» che permettevano una cottura meno rozza (calore accumulato dalle pareti e dalla base del forno) e in ambiente umido

In una collezione di documenti cuneiformi appartenente all'Università di Vale, U.S.A., e che aspettano da molto tempo di essere pubblicati, figurano tre tavolette che all'inizio erano state scambiate per prescrizioni farmaceutiche e che dopo un attento esame si sono ben presto rivelate delle raccolte di ricette gastronomiche'. Scritte in lingua accadica, datate all'incirca 1700 a.C., ci rivelano, improvvisamente per un'epoca così lontana, una cucina di una ricchezza, di una raffinatezza, di una tecnicità e di un'arte perfette, che non avremmo, cena• mente, mai osato immaginare cosi avanzate quattromila anni fa.

Per un increscioso effetto della abituale maledizione che colpisce queste venerabili piastrelle d'argilla, seccate o cotte, nessuna delle tre è intatta.

Nella tavoletta con le venticinque ricette, tutte sono a base costante di acqua e di grasso, cucinate molto più spesso »nella marmitta», cioè con una lunga ebollizione: ma a due riprese, per lo meno, e per un ceno modo di brasare si è fatto ricorso al «paiolo». Le differenze tra le prime ventuno e le ultime quattro è che se ovunque la carne rientra nella composizione del piatto, queste ultime vi aggiungono un ortaggio, eccetto forse l'ultima dove la carne non compare affatto.

Ciò che le differenzia sono nello stesso tempo gli elementi di base, le diverse operazioni previste per la cottura e la presentazione del piatto, e soprattutto i molteplici condimenti che ne diver­sificano il gusto.

Tra questi ultimi, quelli più frequentemente utilizzati, che ricorrono più ostinatamente in tutte le ricette, in alcuni casi addirittura in dose doppia, sono gli agliacei, in particolare il ben conosciuto trio: aglio, cipolla e porro, che sembra abbiano fatto le delizie del palato di quei vecchi golosi. Tuttavia se ne trovano anche altre, che non sempre riusciamo ad identificare con sicurezza: mostarda (?), cumino (?), coriandolo (?), menta (?) e bacche di cipresso per esempio; sbubutinnu e samidu, che dovevano essere degli agliacei (ancora!), ed altri, come il sunartmu, a proposito dei quali non siamo neppure in grado di fare delle valide congetture.

Diversi prodotti cerealicoli: semole, farine, orzo (1) malto (spesso impastato a mo' di torta), erano utilizzati per rendere il liquido più denso e grasso. E a questo stesso scopo talvolta si aggiungeva anche del latte, della birra o del sangue.

Si utilizzava il sale, ma, sembra, non sistematicamente, e pare che ceni piatti traessero il sapore dai loro ingredienti e dalle erbe da condimento

Ogni ricetta comincia (come le nostre) con la sua intestazione: il nome del piatto, derivato dalla sua componente essenziale o dalla sua presentazione, costantemente preceduto dal termine generico rné, alla lettera: «acqua», in realtà qualcosa come «brodo», o piuttosto «bollito» (visto che tutto il conte­nuto del piatto, e non solo il liquido, veniva effettivamente consumato), o anche «salsa»: tutto dipende dalla consistenza e dalla oleosità del liquido al suo stato finale, che ignoriamo.

Ecco così un «bollito di carne», un «bollito di cervo», uno di «gazzella», uno di «capretto», uno di «agnello», uno di «montone», uno di «piccione» ed uno di «uccelli chiamati tomi.; ma anche a seconda del pezzo: un «bollito di cosciotto» e un «bollito di milza». Si trova anche un «bollito alla mostarda (?)» ed un «bollito al sale»; «un bollito rosso», un «bollito chiaro», un «bollito agro (?)». Per due volte il nome sembra ispirato all'origine straniera del piatto: un bollito «assiro», proveniente dalla parte settentrionale del paese, e uno «elamita», preso in prestito dai vicini, quegli elamiti che occupavano la pane sud-occidentale dell'Iran. In quest'ultimo caso, alla fine della ricetta, ci viene precisato anche il nome del piatto nella sua lingua d'origine: vikanda. Per le ultime quattro ricette il titolo è stato fornito dal nome dell'ortaggio principale: per esempio «rape» (è il solo, salvo errori, che sappiamo tradurre).

Sembra che spesso si aggiungesse alla carne di base ,che poteva essere un animale intero, il piccione, o addirittura più d'uno: i rana, o un pezzo, spesso non specificato ma talvolta indicato chiaramente: la coscia, e volentieri la (»rotella, la milza e diverse perii interne — e quasi sempre alle verdure, un pezzo di carne non sempre specificato, ma che si suppone fosse conosciuto dalla gente del mestiere, e che doveva essere del montone. Ma il verbo accadico che ne indica la presenza è ambiguo: ivaz può voler dire «deve essere presente» nel piatto, o «deve essere diviso», «tagliato a pezzetti». Alcuni indizi mi fanno propendere, per il momento, per il primo significato, per esempio il fatto che alla fine delle diverse ricette che cominciano precisamente con questo izzaz applicato alla carne, si trova la formula: «da presentare al taglio», per suggerire che il lavoro del cuciniere è terminato c che, prima di essere degustato dai commensali, il piatto deve essere «tagliato a pezzetti», come faceva in altri tempi lo «scalco».

Alcune ricette

Bollito di carne.

Occorre della carne. Si prepara l'acqua. Si mette del grasso. Del... parola è andata perduta), del porro e dell'aglio pescati insieme. e del sbuhutinnu naturale.

Bollito rosso.

Non c'è bisogno della carne. Si prepara l'acqua. E si mette del grasso. Coratella. trippa e ventre. Sale, malto a granelli, cipolla, samidu, cumino, coriandolo, porro, mrummu, pestati insieme. Prima di essere messa sul fuoco (.in una marmitta»), la carne sarà stata macerata nel sangue messo da pane (dell'animale sacrificato per il piatto).

Ecco adesso una ricetta molto più lunga (quarantanove righe contro 1e undici della precendente.

Dato che è più lacunosa, molto complicata, almeno ai nostri occhi, ed il fatto che manchi la punteggiatura (sconosciuta nella scrittura cunei. forme) non semplifica le cose, è meglio parafrasarla un po' per tentare di darne, almeno, un'immagine sufficientemente chiara, ma che evidentemente non garantisce totalmente un certo numero di dettagli: è tutto quello che si è potuto ricavare, allo stato attuale della nostra conoscenza, da un documento talmen­te nuovo, isolato ed inatteso. L'inizio è andato perduto, ma si capisce che si trattava di preparare degli uccelletti a indicati allora con il loro nome. Il piatto sembra essere preparato in diverse fasi.

All'inizio c'è la preparazione dei pezzi:

Si eliminano la teste e le zampe; se ne apre il corpo per tirar fuori (con tutto il resto) vermiglio e coratella. Si tagliano i vermi­gli, che vengono puliti. Poi si sciacquano i corpi degli accentui, che vengono schiacciati

Si deve operare allora una prima cottura.

Si prepara un paiolo nel quale si dispongono, insieme, uccellet­ti, ventrigli e coratelle, e si mette il tutto sul fuoco (con o senza liquido o materia grassa? Non viene detto; il procedimento era senza dubbio usuale nel 'mestiere.). Poi (dopo una prima esposizio­ne al calore, ebollizione o cottura) si toglie il paiolo dal fuoco.

Segue quindi una seconda cottura o se si vuole il secondo tempo della cottura.

,Si sciacqua con acqua fresca una marmitta; si versa del latte 'battuto' e la si mette sul fuoco. Si toglie il contenuto del paiolo ventriglio e coratella/: si asciuga il tutto: si eliminano le parti non commestibili, si sala e si mette il tutto nella marmitta, aggiungendo al latte un po' di grasso. Si aggiunge pure della ruta precedentemente pulita. Al momento della bollitura si aggiunge nella marmitta un trito (?) di porro, aglio, samidu e cipolla (quattro agliacei)., ma, precisa il testo ,senza eccedere con la cipolla

E «si aggiunge ancora un po' d'acqua.. Durante la cottura bisogna preparare gli ingredienti necessari alla presentazione del piatto. «Si sciacqua del grano macinato, lo si stempera nel latte e lo si incorpora, imputandolo, con della salamoia da condimento (sbiqqm), del samidu, del porro e dell'aglio, con quanto basta di latte ed olio per ottenere una pasta (sufficientemente) fluida, che si espone per un momento al calore del fuoco (?). Si divide allora in due pastoni......Qui il testo è assai poco comprensibile …………..

…………uno dei pastoni servirà a fare del pane non lievitato.

Quello che si deve utilizzare è prima lasciato un po’ in una mentine, con del latte affinché lieviti (?) (il che supporrebbe che nel frattempo si sia introdotto del lievito)

Poi lo si riprende per occuparsi della preparazione del piano, in vista della sua presentazione in tavola:

Si prende un piatto abbastanza grande per contenere (tutti) gli uccelletti: lo si riveste con la pasta preparata, facendo attenzione che superi un po' i bordi del piatto

Si pone il tutto, per cuocerlo, sul forno.

Quando è terminata la cottura della pasta, si toglie il piatto, che si cosparge di un altro trito di tre o quattro agliacei, tra i quali gli inevitabili aglio e cipolla.

La pasta così cosparsa, si dispongono gli uccelletti cotti e, al di sopra, la coratella e i ventrigli. Si bagna il tutto con della salsa. Si copre con un coperchio e si manda in tavola.

Quasi tutte le ricette di quella che viene oggi considerata la più antica raccolta culinaria conosciuta - risale circa al XVII secolo a.C. - si concludono con una formula che segna l'ulteriore tappa del piatto debitamente preparato: «portare a tavola» o, più spesso. «pronto da servire», o più alla lettera «da presentare al coltello», l'unico utensile messo allora a disposizione dei commensali per maneggiare le vettovaglie.

Una volta conclusosi il ruolo dello «chef», entrano quindi in scena i commensali

domenica 11 dicembre 2011

Intro ( da Douglas Adams)

Secondo la Guida galattica per gli autostoppisti, la Zona del Disastro. un gruppo rock al plutonio delle Zone Me tali di Gagrakacka. è non solo il gruppo rock più assordante della Galassia. ma anche il rumore più assordante in assoluto che sia dato di sentire a essere vivente, i frequentatori abituali dei concerti di questi musicisti affermano che per avere il sound migliore bisogna stare dentro grandi bunker di cemento situati a circa sessanta chilometri dal palcoscenico.

Quanto agli esecutori stessi, suonano i loro strumenti con comandi a distanza collocati a bordo di un’astronave isolata acusticamente che resta in orbita intorno al pianeta dove si svolge il concerto, oppure più spesso. intorno a un pianeta completarmele diverso. Le loro canzoni nel complesso sono molto elementari e per lo più seguono il classico schema dei “maschietto che incontra una femminuccia sotto una luna argentea, la quale poi esplode per ragioni non sufficientemente chiarite”.

Molti pianeti hanno vietato gli spettacoli di queste star le del rock, a volte per disapprovazione verso il loro tipo di espressività artistica, ma assai più spesso perché il rumore da loro prodotto violava i trattati Locali di limitazione delle armi strategiche.

Questo però non ha impedito alla Zona dei Disastro di guadagnare cifre così astronomiche da oltrepassare i confini dell’ipermatematica pura, e il capocontabile dei gruppo è stato nominato di recente professore di neomaternatica all’Università di Maximegaton.

Questo perché è stato dato pubblico riconoscimento di validità alla sua teoria generale (e anche a quella ristretta) della Dichiarazione dei Redditi della Zona dei Disastro, teoria nella quale egli dimostra che l’intera struttura del continuum spazio-temporale non è semplicemente curva, ma completamente gobba. Ford arrivò barcollando al tavolo dove Zaphod. Arthur e Trillian stavano seduti in attesa di vedere lo spettacolo.


— Ho bisogno di mettere qualcosa sotto i denti

— disse.

— Allora. Ford

— disse Zaphod

— hai parlato con la star del rock?

Ford scrollò La testa, dubbioso.

— Be’ si, in un certo senso gli ho parlato.

— Che cos’ha detto?

— Oddio, mica tanto. a dir la verità Sta...

—SI?

— Sta passando un anno in condizioni di cadavere per sfuggire alle tasse. Bisogna proprio che mi sieda . Si sedette. In quella arrivò il cameriere.

— Volete vedere il menu?

— disse

— o preferite conoscere il piatto del giorno?

— Conoscere?

— chiese Ford.

— Conoscere?

— chiese Arthur

— Conoscere?

— chiese ilillian.

— Va bene

— disse Zaphod.

— Preferiamo conoscere il piatto del giorno.

…………………………………………..

Un grande animale del genere bovino si avvicinò al tavoIo di Zaphod Behlehio. Era grosso, con gli occhi acquosi, piccole corna e sulle labbra qualcosa che poteva assomigliare a un sorriso accattivante.

— Buonasera

— disse, accovacciandosi in terra.

— Io sono il principale piatto del giorno. Vi sono parti del mio corpo che vi interessano particolarmente?

— borbottò e farfugliò qualcosa tra sé, si mise in una posizione più Comoda e osservò Beeblebrox e gli altri con aria tranquilla.

Arthur e Trillian fissarono l’animale stupefatti. Ford Prefect scrollò le spalle, Zaphod Beeblebrox invece lo scrutò famelico. con l’acquolina in gola.

— Forse preferite un pezzo di spalla?

— disse la bestia.

— Un bel brasato al vino bianco?

— Ehm, un pezzo della vostra spalla? — disse Arthur inorridito.

— Ma certo, signore — rispose felice l’animale.

— Non posso certo offrire La carne di un altro.

Zaphod scattò in piedi e cominciò a palpare con aria dl apprezzamento la spalla del piatto del giorno.

— Ma anche il posteriore è ottimo

— mormorò la bestia.

— Ho fatto ginnastica e mangiato un mucchio di creali, perciò c’è tanta buona carne, qua di dietro.

— Emise un lieve grugnito, bofonchiò qualcosa tra sé, ruminò .un po’, poi riprese il discorso, ‘

—O preferite lo stufato al brasato? — chiese.

— Vuoi dire che questo animale vuole veramente che lo mangiamo?

— dIsse Trillian, rivolta a Ford.

— Io? lo non voglio dire proprio niente — replicò Ford, con lo sguardo vitreo.

— Ma orribile!

— esclamò Arthur.

la cosa più .abominevole che mi sia mai toccato di sentire.

— Che cosa c’è che non va, terrestre? — chiese Zaphod esaminando l’enorme deretano dell’animale.

— C’è che non voglio mangiare una bestia che mi sta davanti agli occhi viva e che mi invita a mangiarla

— disse Arthur,

— Ë disumano,

E sempre meglio che mangiare un animale che non vuole essere mangiato

— disse Zaphod.

— Non è questo il punto

— protestò Arthur Poi ci pensò un attimo e disse:

— E va be’, forse è proprio il punto, ma adesso non ho nessuna voglia di pensarci. Perciò mi limiterò a... ehm., a mangiare un piatto di insalata.

— Posso esortarvi-vi a prendere in Considerazione il mio fegato?

— disse la bestia.

— A quest’ora dovrebbe essere tenerissimo e molto nutriente, perché Sono mesi che mi sottopongo a una dieta abbondante e ipervitaminica.

—Un piatto di insalata

— disse Arthur, con enfasi.

— Un piatto di insalata?

— grugnì l’animale, rivolgendo ad Arthur un’occhiata di rimprovero.

— Non vorrete dirmi per caso che faccio male a prendere un piatto di insalata?

— disse Arthur.

— Be’

— disse l’animale

— conosco molte piante d’insalata che non esiterebbero a rispondervi di sì. Ed è proprio per questo che alla fine, per porre un rimedio al problema, si deciso di allevare un animale che volesse veramente essere mangiato e fosse in grado di dirlo chiaramente, senza mezzi termini. Ed eccomi qui. infatti.

Fece un piccolo inchino.

— Allora io prendo un bicchiere d’acqua

— disse Arthur.

— Senti

— disse Zaphod

— vogliamo mangiare, non filosofare. Quattro bistecche di prima qualità, per favore. E ¡n fretta. milioni di ani che non mettiamo qualcosa Sotto i denti.

L’animale si alzò faticosamente in piedi, con un lieve grugnito soddisfatto.

— Un’ottima scelta, signore, se mi Consente. Davvero Ottma Vado subito a spararmi.

Si girò e strizzò l’occhio ad Arthur’ con aria amichevole.

— Non preoccupatevi signore

— disse.

— Sarò molto umano con me stesso.

Si diresse verso la cucina con passo tranquillo. Pochi minuti dopo arrivò il cameriere con quattro enormi bi stecche fumanti. Zaphod e Ford si I)u(taroflo su di esse senza un attimo di esitazione. Trillian rimase irilerdeita, poi scrollò le spalle e atr.accò a mangiare la propria. Arthur fi.cò la sua bistecca con un senso di nausea.

— Ehi, terresti-e

— disse Zaphod, Con un sorriso malizioso sulla faccia che in quel momento non stava ingozzandosi

— ancora qualche dubbio filosofico?

………..