giovedì 15 dicembre 2011

la prima ricetta

Qual è «la più antica del mondo?
N
essuno ci può rispondere.

Della nostra preistoria ci restano vestigia materiali: residui alimentari, utensili, forni, ma nulla che ci precisi in che modo fossero utilizzati.

Solo i documenti scritti possono darci un'idea di queste «istruzioni per l'uso»: ricette, che costituiscono tutta la cucina.

E siccome la comparsa della scrittura è successiva al III millennio, è soltanto da quest’epoca che possiamo conoscere i più antichi sistemi di gusti e di metodi tradizionali efficaci per trasformare i cibi grezzi in pietanze adatte a quei gusti e da consumarsi nell'immediato.

Fino a quel momento, la più antica raccolta di ricette di cucina era la celebre Arte culinaria (De re coquinaria ) , compilata nel IV secolo d. C., sulla base dell'opera di Apicio, «la più antica cucina» conosciuta era dunque quella dei romani.

In precedenza alcuni greci, in particolare della Magna Grecia, avevano composto, anche loro, delle raccolte gastronomiche Ma tutte queste opere sono andate perdute, a parte qualche breve citazione

Un aiuto ci viene dalla Mesopotamia . È la sede di una grande civiltà, originale ed arcaica, che si è costituita non più tardi del IV millennio; che verso il 3000 a.C., per prima, ha inventato la scrittura.

Di questa non abbiamo quasi per niente ricette, ma dalle tavolette di argilla siamo in grado di stilare un inventario impressionante di derrate che costituivano il rancio degli antichi Mesopotami: cereali, verdure varie, cocco, mele, pere, fichi, melograni, uva , bulbi e radici, -tartufi. e funghi, erbe da condimento, carni grasse e soprattutto bestiame minuto, maiali e pollame, con l'esclusione dei gallinacei, arrivati più tardi, di cui si consumavano anche le uova, e la cacciagione, pesci di mare e di acqua dolce, cheloni, crostacei e frutti di mare e, tra gli insetti, almeno le cavallette; latte, «burro. ed altri grassi animali (strutto, ecc.) e veg

etali {sesamo ed ulivo): manne di alberi vari, poi miele d'api per addolcire i cibi e prodotti minerali (sale, cenere?) per dar maggior consistenza al sapore. Tutte queste derrate locali erano così varie che, per quanto ne sappiamo, i Mesopotami non hanno mai, per cosi dire, importato nulla dall'estero, nonostante l'intensità e la vastità geografica del loro commercio prima ancora del III

millennio.


Tuttavia, se si accontentavano dei loro prodotti locali, si sono ingegnati a trattarli, trasformarli e prepararli in svariate maniere. All'inizio sapevano conservarli facendo seccare non solo i cereali e i legumi (fave e lenticchie) ma diversi ortaggi e frutta (in particolare il dattero, l'uva ed il fico), e soprattutto la car

ne ed il pesce, che probabilmente avevano imparato ad affumicare (?) e che, abitualmente, conservavano sotto sale («salata» di pesce, di manzo, di gazzella...). Conoscevano anche l'arte di «conservare» determinati frutti, nel miele, e del pesce, più spesso nell'olio. Avevano messo a punto una salamoia, utilizzata sia come pietanza che come condimento, a base di pesce, di crostacei o di cavallette, che chiamavano shiqqa, simile alla pirsalat nizzarda. Utilizzavano la fermentazione lattica per preparare -.latti acidi» e formaggi freschi. Si era anche sviluppata una tecnica per il trattamento dei cereali: si trattavano con il malto. li si tritava nella macina («tramoggia del mulino.) per farne seme. la e farina, che si poteva ottenere più o m

eno fine con la setacciatura.

Dal malto si ricavava la birra, bevanda nazionale in questi paesi, dove si conosceva anche il vino proveniente da Nord e da Nord - Ovest.

Per quanto riguarda il fuoco se ne erano mirabilmente serviti. Esponevano i loro cibi alla fiamma o alla brace per cuocerli o arrostirli, e utilizzavano anche alcuni strumenti per modulare il calore di cottura, come la cenere bollente, o tizzoni poggiati sulla brace. Si servivano anche di cilindri verticali in argilla, con le pareti interne ben riscaldate sulle quali si applicavano, per cuocerli, degli strati di pasta non lievitata, come si fa ancora oggi in Oriente, dove anche il nome di questo forno (tann&r) deriva da quello utilizzato dagli antichi mesopotami (tinibir). Essi avevano inventato, all'inizio del III millennio, dei «forni a cupola» che permettevano una cottura meno rozza (calore accumulato dalle pareti e dalla base del forno) e in ambiente umido

In una collezione di documenti cuneiformi appartenente all'Università di Vale, U.S.A., e che aspettano da molto tempo di essere pubblicati, figurano tre tavolette che all'inizio erano state scambiate per prescrizioni farmaceutiche e che dopo un attento esame si sono ben presto rivelate delle raccolte di ricette gastronomiche'. Scritte in lingua accadica, datate all'incirca 1700 a.C., ci rivelano, improvvisamente per un'epoca così lontana, una cucina di una ricchezza, di una raffinatezza, di una tecnicità e di un'arte perfette, che non avremmo, cena• mente, mai osato immaginare cosi avanzate quattromila anni fa.

Per un increscioso effetto della abituale maledizione che colpisce queste venerabili piastrelle d'argilla, seccate o cotte, nessuna delle tre è intatta.

Nella tavoletta con le venticinque ricette, tutte sono a base costante di acqua e di grasso, cucinate molto più spesso »nella marmitta», cioè con una lunga ebollizione: ma a due riprese, per lo meno, e per un ceno modo di brasare si è fatto ricorso al «paiolo». Le differenze tra le prime ventuno e le ultime quattro è che se ovunque la carne rientra nella composizione del piatto, queste ultime vi aggiungono un ortaggio, eccetto forse l'ultima dove la carne non compare affatto.

Ciò che le differenzia sono nello stesso tempo gli elementi di base, le diverse operazioni previste per la cottura e la presentazione del piatto, e soprattutto i molteplici condimenti che ne diver­sificano il gusto.

Tra questi ultimi, quelli più frequentemente utilizzati, che ricorrono più ostinatamente in tutte le ricette, in alcuni casi addirittura in dose doppia, sono gli agliacei, in particolare il ben conosciuto trio: aglio, cipolla e porro, che sembra abbiano fatto le delizie del palato di quei vecchi golosi. Tuttavia se ne trovano anche altre, che non sempre riusciamo ad identificare con sicurezza: mostarda (?), cumino (?), coriandolo (?), menta (?) e bacche di cipresso per esempio; sbubutinnu e samidu, che dovevano essere degli agliacei (ancora!), ed altri, come il sunartmu, a proposito dei quali non siamo neppure in grado di fare delle valide congetture.

Diversi prodotti cerealicoli: semole, farine, orzo (1) malto (spesso impastato a mo' di torta), erano utilizzati per rendere il liquido più denso e grasso. E a questo stesso scopo talvolta si aggiungeva anche del latte, della birra o del sangue.

Si utilizzava il sale, ma, sembra, non sistematicamente, e pare che ceni piatti traessero il sapore dai loro ingredienti e dalle erbe da condimento

Ogni ricetta comincia (come le nostre) con la sua intestazione: il nome del piatto, derivato dalla sua componente essenziale o dalla sua presentazione, costantemente preceduto dal termine generico rné, alla lettera: «acqua», in realtà qualcosa come «brodo», o piuttosto «bollito» (visto che tutto il conte­nuto del piatto, e non solo il liquido, veniva effettivamente consumato), o anche «salsa»: tutto dipende dalla consistenza e dalla oleosità del liquido al suo stato finale, che ignoriamo.

Ecco così un «bollito di carne», un «bollito di cervo», uno di «gazzella», uno di «capretto», uno di «agnello», uno di «montone», uno di «piccione» ed uno di «uccelli chiamati tomi.; ma anche a seconda del pezzo: un «bollito di cosciotto» e un «bollito di milza». Si trova anche un «bollito alla mostarda (?)» ed un «bollito al sale»; «un bollito rosso», un «bollito chiaro», un «bollito agro (?)». Per due volte il nome sembra ispirato all'origine straniera del piatto: un bollito «assiro», proveniente dalla parte settentrionale del paese, e uno «elamita», preso in prestito dai vicini, quegli elamiti che occupavano la pane sud-occidentale dell'Iran. In quest'ultimo caso, alla fine della ricetta, ci viene precisato anche il nome del piatto nella sua lingua d'origine: vikanda. Per le ultime quattro ricette il titolo è stato fornito dal nome dell'ortaggio principale: per esempio «rape» (è il solo, salvo errori, che sappiamo tradurre).

Sembra che spesso si aggiungesse alla carne di base ,che poteva essere un animale intero, il piccione, o addirittura più d'uno: i rana, o un pezzo, spesso non specificato ma talvolta indicato chiaramente: la coscia, e volentieri la (»rotella, la milza e diverse perii interne — e quasi sempre alle verdure, un pezzo di carne non sempre specificato, ma che si suppone fosse conosciuto dalla gente del mestiere, e che doveva essere del montone. Ma il verbo accadico che ne indica la presenza è ambiguo: ivaz può voler dire «deve essere presente» nel piatto, o «deve essere diviso», «tagliato a pezzetti». Alcuni indizi mi fanno propendere, per il momento, per il primo significato, per esempio il fatto che alla fine delle diverse ricette che cominciano precisamente con questo izzaz applicato alla carne, si trova la formula: «da presentare al taglio», per suggerire che il lavoro del cuciniere è terminato c che, prima di essere degustato dai commensali, il piatto deve essere «tagliato a pezzetti», come faceva in altri tempi lo «scalco».

Alcune ricette

Bollito di carne.

Occorre della carne. Si prepara l'acqua. Si mette del grasso. Del... parola è andata perduta), del porro e dell'aglio pescati insieme. e del sbuhutinnu naturale.

Bollito rosso.

Non c'è bisogno della carne. Si prepara l'acqua. E si mette del grasso. Coratella. trippa e ventre. Sale, malto a granelli, cipolla, samidu, cumino, coriandolo, porro, mrummu, pestati insieme. Prima di essere messa sul fuoco (.in una marmitta»), la carne sarà stata macerata nel sangue messo da pane (dell'animale sacrificato per il piatto).

Ecco adesso una ricetta molto più lunga (quarantanove righe contro 1e undici della precendente.

Dato che è più lacunosa, molto complicata, almeno ai nostri occhi, ed il fatto che manchi la punteggiatura (sconosciuta nella scrittura cunei. forme) non semplifica le cose, è meglio parafrasarla un po' per tentare di darne, almeno, un'immagine sufficientemente chiara, ma che evidentemente non garantisce totalmente un certo numero di dettagli: è tutto quello che si è potuto ricavare, allo stato attuale della nostra conoscenza, da un documento talmen­te nuovo, isolato ed inatteso. L'inizio è andato perduto, ma si capisce che si trattava di preparare degli uccelletti a indicati allora con il loro nome. Il piatto sembra essere preparato in diverse fasi.

All'inizio c'è la preparazione dei pezzi:

Si eliminano la teste e le zampe; se ne apre il corpo per tirar fuori (con tutto il resto) vermiglio e coratella. Si tagliano i vermi­gli, che vengono puliti. Poi si sciacquano i corpi degli accentui, che vengono schiacciati

Si deve operare allora una prima cottura.

Si prepara un paiolo nel quale si dispongono, insieme, uccellet­ti, ventrigli e coratelle, e si mette il tutto sul fuoco (con o senza liquido o materia grassa? Non viene detto; il procedimento era senza dubbio usuale nel 'mestiere.). Poi (dopo una prima esposizio­ne al calore, ebollizione o cottura) si toglie il paiolo dal fuoco.

Segue quindi una seconda cottura o se si vuole il secondo tempo della cottura.

,Si sciacqua con acqua fresca una marmitta; si versa del latte 'battuto' e la si mette sul fuoco. Si toglie il contenuto del paiolo ventriglio e coratella/: si asciuga il tutto: si eliminano le parti non commestibili, si sala e si mette il tutto nella marmitta, aggiungendo al latte un po' di grasso. Si aggiunge pure della ruta precedentemente pulita. Al momento della bollitura si aggiunge nella marmitta un trito (?) di porro, aglio, samidu e cipolla (quattro agliacei)., ma, precisa il testo ,senza eccedere con la cipolla

E «si aggiunge ancora un po' d'acqua.. Durante la cottura bisogna preparare gli ingredienti necessari alla presentazione del piatto. «Si sciacqua del grano macinato, lo si stempera nel latte e lo si incorpora, imputandolo, con della salamoia da condimento (sbiqqm), del samidu, del porro e dell'aglio, con quanto basta di latte ed olio per ottenere una pasta (sufficientemente) fluida, che si espone per un momento al calore del fuoco (?). Si divide allora in due pastoni......Qui il testo è assai poco comprensibile …………..

…………uno dei pastoni servirà a fare del pane non lievitato.

Quello che si deve utilizzare è prima lasciato un po’ in una mentine, con del latte affinché lieviti (?) (il che supporrebbe che nel frattempo si sia introdotto del lievito)

Poi lo si riprende per occuparsi della preparazione del piano, in vista della sua presentazione in tavola:

Si prende un piatto abbastanza grande per contenere (tutti) gli uccelletti: lo si riveste con la pasta preparata, facendo attenzione che superi un po' i bordi del piatto

Si pone il tutto, per cuocerlo, sul forno.

Quando è terminata la cottura della pasta, si toglie il piatto, che si cosparge di un altro trito di tre o quattro agliacei, tra i quali gli inevitabili aglio e cipolla.

La pasta così cosparsa, si dispongono gli uccelletti cotti e, al di sopra, la coratella e i ventrigli. Si bagna il tutto con della salsa. Si copre con un coperchio e si manda in tavola.

Quasi tutte le ricette di quella che viene oggi considerata la più antica raccolta culinaria conosciuta - risale circa al XVII secolo a.C. - si concludono con una formula che segna l'ulteriore tappa del piatto debitamente preparato: «portare a tavola» o, più spesso. «pronto da servire», o più alla lettera «da presentare al coltello», l'unico utensile messo allora a disposizione dei commensali per maneggiare le vettovaglie.

Una volta conclusosi il ruolo dello «chef», entrano quindi in scena i commensali

Nessun commento:

Posta un commento